Abbiamo aperto il primo Community Center di Firenze nel febbraio 2021: la pandemia era ancora diffusa e il servizio è stato organizzato seguendo precise norme di contenimento della diffusione del Coronavirus. Quando è entrato Mustafa, il primo utente dello sportello, lo ho accolto con la mascherina FFP2, un sorriso trasmesso attraverso gli occhi, un grande plexiglas fra me e lui e un rassicurante tavolo rettangolare che aiutava a mantenere le distanze, ma al contempo precludeva ogni contatto. E’ stato allora utile e necessario, per conferire calore agli incontri, adottare qualche piccolo accorgimento, come cercare di accogliere le persone al loro arrivo nello spazio esterno, in modo da potersi scambiare un saluto senza mascherina, e da poter compiere fianco a fianco i primi passi che portavano alla stanza di lavoro.
Un inizio in salita la presa in carico di Mustafa. Serbo con i suoi 35 anni trascorsi in Italia, in buona parte da nomade, padre di cinque figli, è stata molto lunga e impegnativa. Da un lato perché il servizio era appena aperto e il data_entry ancora da sviluppare, dall’altro per le oggettive difficoltà del mercato del lavoro, con la crisi economica galoppante e le difficoltà che la pandemia si stava portando dietro. Mustafa è un operaio specializzato in minuterie metalliche, ma aveva difficoltà a leggere un’offerta di lavoro in italiano e non sapeva utilizzare abbastanza le nuove tecnologie per poter inviare un curriculum online o per gestire un colloquio in remoto. Aveva bisogno di una vera e propria alfabetizzazione linguistica e tecnologica. Abbiamo fatto questo difficile percorso insieme, con lui sempre di là e io sempre di qua dal tavolo. Anche se si riducevano le opportunità di condivisione e di co-progettazione del processo, alla fine, dopo più di sei mesi, Mustafa ha trovato lavoro. Era la prova che potevamo dare il nostro contributo anche in contesti fortemente condizionati.
Quando a settembre 2021 abbiamo aperto il secondo Community Center, la pandemia dominava ancora la scena sanitaria e sociale e anche in questo caso lo sportello prevedeva l’uso delle mascherine, del tavolo e del plexiglas. Il desiderio di un ritorno alla normalità era molto forte, e ancora più forte era la necessità di inventarne una nuova. Insieme ai colleghi abbiamo inserito nella stanza un angolo allestito, dove le persone avrebbero potuto condividere un computer o svolgere altre attività collettive. Si trattava di uno spazio semplice, pulito e accogliente che trasmetteva ai beneficiari la cura con la quale cercavamo di aiutarli, definendo un percorso condiviso.
Con il passar del tempo ho iniziato a sporgermi timidamente al di là del vetro, a girare intorno al tavolo e adesso, sempre più spesso, a sedermi accanto alle persone, perché possano vedere cosa scrivo sul mio quaderno o cosa sto facendo al computer.
Qualche giorno fa è arrivata allo sportello Irma, una ragazza peruviana che voleva iscriversi a un corso di formazione professionalizzante in pelletteria. Dopo tanti anni di lavoro come cameriera ai piani, compatibile con gli orari di una mamma sola, voleva sfruttare i mesi di disoccupazione che le spettavano per sperimentarsi in un altro ambito lavorativo. Sedute una accanto all’altra, è stato molto più facile creare quella confidenza necessaria per parlare più liberamente dei reali bisogni e delle proprie difficoltà. Sono certa che anche la lettura del mio corpo, stesse “parlando” a Irma e che grazie a questa vicinanza la narrazione del suo vissuto si è liberata del pregiudizio e della vergogna.
Nel lavoro di cura si parla spesso della “giusta distanza”, un equilibrio tra il distacco emotivo necessario per stare vicino alla persona senza caricarsi sulle spalle il peso della sua sofferenza e la vicinanza emotiva che deve scaturire dall’incontro per alimentare l’empatia e la resilienza.
Giusta distanza o giusta vicinanza, come preferiva definirla una professoressa del mio corso di laurea, che si definisce anche attraverso qualcosa di più profondo della vicinanza fisica, ma dove perfino l’organizzazione dello spazio, il linguaggio non verbale e il poter “fare insieme”, assumono la loro importanza.
I primi passi del servizio sono stati pesantemente condizionati da un distanziamento fisico “obbligato” che ha imposto di organizzare il set dei colloqui in modo rigido, incoraggiando la delega al professionista per tutto ciò che andava fatto. Come quando chiesi ad Amina cosa si aspettasse dal nostro incontro e la risposta fu lapidaria: “Tracy mi ha detto che tu ci trovi lavoro”. In questo clima, paradossalmente, poteva risultare più facile trovare soluzioni rapide, soprattutto quando il mercato del lavoro è tornato ad aprirsi. Mi dicevo “…devi trovarle lavoro presto, è in difficoltà.. prima lo trovi prima raggiungi il TUO obiettivo”. A volte è bastato davvero incontrarsi una volta, migliorare il curriculum e dopo un paio di candidature la persona trovava lavoro. Tanta soddisfazione in un primo momento, ma poi, cosa rimane alla persona che è venuta allo sportello? Cosa ha imparato? Di cosa può fare tesoro? Considerazioni, queste, che si sono rafforzate e approfondite nel corso di una formazione specifica. Ne sono uscita frustrata per tutto quello che sbagliavo, ma sempre più motivata a cambiare, per trovare una nuova forma di gestione del colloquio più efficace e più orizzontale. Volevo rendere più autonomi, fiduciosi e motivati i miei utenti.
Questo si può e si deve fare; me lo dice Marta, che è tornata di persona allo sportello per dirmi che si era licenziata dall’impiego che avevamo trovato insieme, ma che ne aveva già trovato un altro, mostrandosi interessata ai trucchi di gestione di un colloquio e monitorando costantemente l’andamento della selezione, una strategia che avevamo sperimentato insieme e che sentiva di aver fatto sua.
Valentina Fini
Operatrice Community Center Firenze